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#SìCash parte V: L’inclusione finanziaria

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Secondo la Banca Mondiale e i membri dell’alleanza BTCA è possibile ridurre la povertà nei paesi del terzo mondo «sostenendo la transizione dal contante ai pagamenti digitali in modo da promuovere l’inclusione finanziaria e una finanza digitale responsabile».

«Inclusione finanziaria» è la parola-chiave che ricorre più spesso nelle dichiarazioni di queste e altre organizzazioni internazionali. L’idea sottesa è che si debba offrire anche ai più bisognosi l’opportunità di usufruire dei servizi bancari, sia per effettuare pagamenti digitali e a distanza sia, appunto, per accedere ai prodotti finanziari offerti dagli istituti di credito. «Includere» significa quindi procurare nuovi clienti alle banche e trasferire una miriade di piccoli gruzzoli nella disponibilità del circuito finanziario. In cambio, l’indigente finanziarizzato potrà investire i suoi risparmi e chiedere prestiti.

Gli sportelli bancari si trovano già ovunque nel mondo abitato. Sono un servizio a cui tutti possono accedere se, quando e nella misura in cui ne avessero bisogno. Perché allora bisognerebbe forzare o incentivare chi ne è «escluso» a versarvi i suoi soldi? E soprattutto, in che modo ciò potrebbe renderlo meno povero? Non può, appunto.

Occorre qui fare un passo indietro. Nell’umanitarismo in grande scala, il concetto di «inclusione finanziaria» amplia e sviluppa un’idea già in voga da decenni: il «microcredito». In un recente articolo che ne ripercorre la storia, le motivazioni e i fallimenti, il prof. Milford Bateman definisce il microcredito come «nient’altro che un modo socialmente accettabile con cui gli speculatori finanziari sfruttano i poveri». Alla base dell’idea di microcredito agisce la fede ideologica in un modello economico dove i capitali finanziari, per il solo fatto di essere accessibili, genererebbero in sé lo sviluppo economico dando a tutti la possibilità di contrarre un prestito iniziale per avviare un’impresa ed emanciparsi così dalla miseria.

«Includere» significa procurare nuovi clienti alle banche e trasferire una miriade di piccoli gruzzoli nella disponibilità del circuito finanziario.

Sarebbe facile riconoscere in questa intuizione, teorizzata e divulgata a partire dagli anni ‘80 dall’economista bengalese Muhammad Yunus, una summa dei difetti delle teorie economiche contemporanee più acclamate: la precedenza della finanza sulla produzione, dei soldi sul lavoro, dell’offerta sulla domanda, della «start up» sull’investimento pubblico e privato a lungo termine. Qui ci basta più modestamente osservare che non funziona. Come sottolinea Bateman, se l’erogazione massiccia di microcrediti nei paesi poveri non ha creato alcun tessuto imprenditoriale dal basso, in compenso ha gravato la povertà di un ulteriore macigno: il debito, costringendo i «beneficiari» ad attingere ai propri beni per pagare gli interessi e generando profitti enormi per i banchieri «filantropi» (più recentemente si va diffondendo la prassi di utilizzare le risorse del microcredito per finanziare l’emigrazione nei paesi ricchi, con la speranza di restituire il prestito con le future rimesse).

Le politiche di riduzione del denaro fisico circolante nelle economie informali del terzo mondo sembra insomma qualificarsi come il tentativo di rilanciare per vie traverse un’idea, quella dell’«inclusione finanziaria», già clamorosamente fallita nelle sue forme dirette. Non c’è nessun motivo per credere che in questo caso le cose andranno diversamente. Nell’ipotesi meno drammatica, la conversione delle stropicciate banconote di miliardi di indigenti in agile denaro virtuale servirà solo ad arricchire il capitale di investimento delle banche e a generare commissioni per chi lo gestisce.