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Ce lo chiede l’Europa (perché?)

Come è noto, all’indomani del voto europeo la Commissione Europea ha raccomandato l’apertura di una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 126 del Trattato di Maastricht a carico del nostro Paese, per non avere rispettato l’impegno di ridurre il debito pubblico. Qualora attivata, la procedura comporterebbe una multa fino allo 0,5% del PIL e il congelamento dei fondi strutturali e dei prestiti della Banca europea degli investimenti, con conseguenze molto pesanti per la nostra economia.

Il 6 giugno scorso il Consiglio dell’Unione Europea ha indirizzato al nostro governo un elenco di raccomandazioni per non incorrere nelle sanzioni. Le misure di «risanamento» caldeggiate nel documento, consultabile qui in italiano, non fanno che riproporre lo stanco copione dell’austerità fiscale: dalla diminuzione della spesa a deficit (cioè i servizi ai cittadini e le commesse pubbliche ai privati) all’aumento delle tasse sulla proprietà (cioè sulla casa) e sui consumi (cioè l’IVA), fino all’evergreen di tagliare le pensioni d’anzianità.

La questione che qui più interessa è quella sollevata al punto 11 dell’analisi di contesto e al punto 1 delle raccomandazioni dove, dopo avere elogiato il nostro Paese… per l’introduzione della fattura elettronica, i consiglieri si dicono preoccupati per il presunto uso eccessivo del denaro contante in Italia. Scrivono:

Negli ultimi anni… sono stati innalzati i limiti legali per i pagamenti in contanti, misura che potrebbe scoraggiare l’uso dei pagamenti elettronici, la cui promozione, invece, potrebbe incentivare l’emissione di fatture e scontrini fiscali, migliorando in tal modo l’adempimento degli obblighi tributari.

Poche righe dopo la «promozione» dei pagamenti elettronici diventa un’imposizione, là dove si raccomanda di

contrastare l’evasione fiscale, in particolare nella forma dell’omessa fatturazione, potenziando i pagamenti elettronici obbligatori anche mediante un abbassamento dei limiti legali per i pagamenti in contanti.

Ai consiglieri europei andrebbero però ricordati almeno i risultati di uno studio della CGIA di Mestre del 2015, dai quali non emerge alcuna correlazione tra limiti all’uso del contante ed evasione fiscale:

Se tra il 2010 e l’anno successivo l’«asticella» del limite al contante si è ulteriormente abbassata (passando da 5.000 e 1.000 euro), l’evasione, invece, è salita fino a sfiorare il 16 per cento del Pil, per poi ridiscendere nel 2012 sotto quota 14 per cento. Alla luce di questa comparazione possiamo affermare che non c’è una stretta correlazione tra l’uso della carta moneta e l’evasione fiscale.

Il dato fu ribadito anche da un politico non esattamente populista e antieuropeista come Pier Carlo Padoan, allora ministro dell’Economia e delle finanze:

Non c’è nei dati – nei dati – nessuna correlazione fra l’intensità del limite [all’uso dei contanti] e la diffusione dell’economia sommersa e quindi… dell’evasione. Non c’è nessuna correlazione.

E quindi? Che cosa ci sta chiedendo davvero l’Unione Europea? Lo sbandierato freno alla (micro)evasione fiscale è un abbaglio oppure un pretesto per schedare i consumi, finanziarizzare i risparmi, condizionare la libertà di spesa, altro? Sarebbe forse utile che i nostri rappresentanti lo chiedessero direttamente ai colleghi di Bruxelles, dati alla mano.

Nel frattempo ci solleva sapere che tra le fila della maggioranza c’è chi sembra avere colto bene i rischi della richiesta europea. Ci auguriamo quindi che la si rispedisca al mittente. Su questo fronte abbiamo già concesso, stiamo già concedendo troppo.