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Come già nel caso dell’evasione fiscale, anche il rapporto tra denaro fisico e corruzione è a dir poco sovrastimato. La cronaca suggerisce che la mazzetta di banconote è sì lo strumento più pittoresco della corruzione, ma non certo l’unico e forse neanche il più «pesante» in termini economici: funzionari e politici si comprano con orologi di lusso, escort, vacanze, droga, compravendite gonfiate, consulenze, false fatturazioni, pacchetti di voti e, ai livelli più alti, offrendo loro posizioni prestigiose e ben retribuite a fine mandato negli organigrammi delle aziende corruttrici o ad esse collegate, secondo lo schema formalmente legale delle «revolving doors».
Il rapporto tra denaro fisico e corruzione è sovrastimato nel mondo, addirittura inverso in Italia.
La già citata indagine di Deutsche Bank conclude che «non si può dare al contante la colpa della corruzione». Similmente, le regressioni del prof. Schneider non evidenziano nessi causali univoci tra i due fenomeni («i risultati non sono stabili, quindi non posso concludere che il contante sia una causa della corruzione»). Nelle conclusioni, Schneider stima una potenziale riduzione del volume economico della corruzione tra l’1,8% e il 18%, ampiamente variabile in funzione della nazione osservata e del grado di limitazione del cash (da poco a tutto).
Restando in Italia, anche in questo caso la relazione è inversa: alla progressiva limitazione dei pagamenti in contanti si è accompagnato un aumento della corruzione, cioè una diminuzione del suo «controllo» secondo le misurazioni della Banca Mondiale.