Poche settimana fa ci avevano allarmato le dichiarazioni del Sottosegretario Massimo Bitonci a margine dell’annunciata procedura di infrazione europea contro il nostro Paese. Secondo il politico leghista, «i miliardi che servono alla copertura» del disavanzo potranno essere recuperati anche incentivando «l’utilizzo di carte di credito, bonifici, bancomat e dati strumenti elettronici» per i pagamenti. Nella stessa intervista, l’on. Bitonci assicurava che il Governo non intende comunque abbassare o revocare la soglia autorizzata di pagamento di tremila euro in contanti, oggi in vigore.
Sulla natura claudicante di queste argomentazioni ci siamo già espressi. Se gli effetti positivi di una limitazione all’uso del contante sulla compliance fiscale sono stati messi in dubbio persino dal precedente ministro Padoan, oltreché da studiosi e istituzioni internazionali, la stessa ipotesi che il recupero di ulteriori residui di evasione gioverebbe alla stabilità finanziaria e alla floridezza economica dell’Italia è sonoramente smentita dagli ultimi dieci anni di inasprimento dei controlli e degli adempimenti. Al termine dei quali ci ritroviamo ad affrontare gli stessi problemi di allora, evidentemente sistemici e ordinamentali, legati più alle regole comunitarie di finanza pubblica e meno (o per nulla) ai comportamenti dei cittadini.
L’ipotesi che il recupero di ulteriori residui di evasione gioverebbe alla stabilità finanziaria è sonoramente smentita dagli ultimi dieci anni di inasprimento dei controlli. Il problema è nelle regole, non nei comportamenti.
Il sospetto tutto sommato ovvio che incentivando la moneta elettronica si voglia disincentivare quella fisica si è fatto certezza in questi giorni, quando il direttore dell’Unità di informazione finanziaria (Uif), istituita nel 2008 presso Bankitalia per contrastare il fenomeno del riciclaggio, ha annunciato di volere applicare alcuni strumenti di indagine concessi dall’ultima direttiva europea sull’antiriciclaggio alle autorità di controllo, con l’obiettivo di estendere progressivamente il perimetro degli obblighi, soprattutto in carico alle banche. Un’efficace sintesi audiovisiva pubblicata dal blog La legge per tutti ci informa infatti che gli istituti dovranno obbligatoriamente segnalare versamenti e prelievi di valore superiore ai 10.000 euro, anche qualora vi sia il sospetto che li si stia frammentando in movimenti di valore più basso.
Il sospetto, tutto sommato ovvio, è che incentivando la moneta elettronica si voglia disincentivare quella fisica.
Ma la parte più preoccupante riguarda il ruolo del «risparmiometro» i cui algoritmi, applicandosi a ogni singolo cittadino titolare di un conto, riusciranno «a verificare quanti prelievi dal conto corrente sono stati fatti nell’arco di un anno potendo così desumere, nel caso di scarso utilizzo del conto corrente, se il contribuente dispone di ulteriori risorse in contanti, evidentemente non tracciabili e perciò (!!!) sottratte al fisco».
Troviamo che queste misure siano aberranti e inaccettabili innanzitutto perché non giustificate dallo scopo dichiarato. Esse istituiscono uno Stato di polizia – lo ripetiamo: inutile, anche là dove si grattasse qualche milione in più dal fondo dell’evaso – basato sulla presunzione di colpevolezza e con gli unici prevedibili effetti di irrigidire ulteriormente i rapporti economici, aumentare i costi, diminuire la fiducia dei cittadini e spingere sempre più persone nell’invisibilità fiscale.
Sono trascorsi meno di due anni da quando l’ex ministro Maria Elena Boschi si chiedeva «come incentivare l’utilizzo della moneta elettronica in Italia» e «come aggredire il contante che è presente nelle case». Oggi arriva la risposta, scientifica e implacabile, in perfetta continuità di intenti.
Per quel che può valere, ci saremmo invece augurati un deciso cambio di rotta.