Nella percezione comune, soldi contanti e «nero» sono quasi sinonimi, sicché la relazione tra circolante fisico e infedeltà fiscale è data per dimostrata. I dati europei raccolti nel già citato rapporto di Deutsche Bank, relativi a 12 paesi, raccontano però una realtà diversa: se è vero che Spagna, Italia e Grecia sono caratterizzate da un uso intensivo del contante e da un vasto sommerso, Austria e Germania si collocano invece tra i paesi fiscalmente più virtuosi pur avendo lo stesso tasso di transazioni in contanti delle nazioni del sud. In Svezia, dove l’utopia «no cash» sembra prossima a realizzarsi, il tasso di evasione stimata è comunque superiore a quello delle altre nazioni sviluppate del centro e nord Europa. Il rapporto conclude che «da risultati così diversi emerge con chiarezza che il denaro contante è difficilmente la ragione per cui si evadono le tasse. I parametri che determinano la dimensione dell’economia sommersa sono piuttosto la pressione fiscale e la qualità delle istituzioni pubbliche, l’etica dei contribuenti e il reddito pro capite».
Dai dati europei emerge con chiarezza che il denaro contante è difficilmente la ragione per cui si evadono le tasse.
In un paper successivo, uno dei massimi esperti di economia criminale, il prof. Friedrich Schneider dell’Università di Linz, ha esteso il campione a 36 nazioni evidenziando, in quel caso, una correlazione statisticamente significativa tra cash e sommerso. Dall’analisi delle regressioni l’autore concludeva tuttavia che la numerosità delle transazioni in contanti può sì essere un indicatore dell’infedeltà fiscale, come già ipotizzato in letteratura, ma non una causa, quantomeno rispetto ad altri e più determinanti fattori. Ad esempio, simulando una riduzione del PIL del 10%, prevedeva una diminuzione del sommerso del 18,4%, laddove un decremento di pari percentuale dei pagamenti cash produrrebbe un calo del «nero» che oscilla tra lo zero e un misero 2%. Nell’ipotesi più drastica – quella dell’abolizione tout court del denaro contante – Schneider stima una riduzione massima del 20% del volume sommerso, pur osservando con altri autori che la prima causa dell’evasione fiscale è la scarsa fiducia dei contribuenti nell’autorità statale, sicché l’obbligo di ricorrere a mezzi di pagamento tracciabili eroderebbe ulteriormente quella fiducia, con prevedibili ricadute negative sulla propensione all’onestà contributiva.
La numerosità delle transazioni in contanti può sì essere un indicatore dell’infedeltà fiscale, ma non una causa.
Se consideriamo la situazione italiana, le simulazioni di Schneider appaiono in realtà fin troppo ottimiste. Nel nostro caso, a un’ulteriore limitazione all’uso dei contanti si è addirittura accompagnato un aumento dell’evasione stimata, come ha certificato, tra gli altri, la CGIA di Mestre in uno studio del 2015:
Se tra il 2010 e l’anno successivo l’«asticella» del limite al contante si è ulteriormente abbassata (passando da 5.000 e 1.000 euro), l’evasione, invece, è salita fino a sfiorare il 16 per cento del Pil, per poi ridiscendere nel 2012 sotto quota 14 per cento. Alla luce di questa comparazione possiamo affermare che non c’è una stretta correlazione tra l’uso della carta moneta e l’evasione fiscale.
L’errore più frequente è quello di credere che l’evasione fiscale si avvalga esclusivamente o prevalentemente di denaro contante. Se ciò può essere vero in termini di numerosità delle transazioni, non lo è certo in termini di volumi economici, e quindi di effettivo danno all’erario. Fornire dati precisi è naturalmente impossibile ma per farsi un’idea delle proporzioni può aiutare un calcolo del giornalista investigativo John Burn-Murdoch, che stima le mancate entrate fiscali annue dovute a pagamenti «cash-in-hand» in Inghilterra in un massimo di 8 miliardi di sterline («ma l’importo esatto potrebbe essere due o tre volte più basso») su un totale di 70 miliardi evasi: meno di un decimo. In Italia si è calcolato che l’evasione di professionisti, artigiani e commercianti (di cui solo una parte in contanti) assomma a circa il 30% del totale, mentre quella di industriali, bancari e assicurativi (di cui praticamente nulla in contanti) a oltre il 60%.
Inoltre, si sottovaluta quasi sempre il ruolo dell’elusione fiscale, appannaggio di grandi e grandissimi contribuenti e sempre e rigorosamente «no cash»: dai 25 miliardi di mancati versamenti di alcune banche europee denunciate da Oxfam al sistematico ricorso al transfer pricing da parte delle più importanti multinazionali del globo. In un articolo di Forbes in cui si spiega come il patron di Ikea Ingvar Kamprad, ottavo nella classifica dei più ricchi del mondo, abbia «evitato legalmente le tasse dal 1973» ad oggi, non si menzionano né valigette di soldi né mancati scontrini.
Poiché la grande evasione viaggia già sui binari della moneta elettronica, la soppressione dei contanti sortirebbe il solo effetto di mettere fuori gioco i piccoli.
In conclusione, poiché l’evasione fiscale viaggia già in larga parte sui binari della moneta virtuale e tracciata, la soppressione del contante non produrrebbe effetti rilevanti sul suo contenimento. In compenso accelererebbe però una distorsione del mercato in senso «classista» negando ai piccoli operatori – e solo a loro – la possibilità di evadere e riservando così tutto il vantaggio competitivo dell’autosconto fiscale a chi già froda pesantemente il fisco senza mai sfiorare la carta moneta. Farebbe insomma strame dei deboli per aprire ulteriori spazi di mercato ai forti nelle more potenzialmente infinite tra la minaccia realizzata di una stretta sul contante – e quindi anche di un aumento dei costi di transazione – e la promessa vaga e mai mantenuta di una «chiusura dei paradisi fiscali». Non può dunque stupire che tra i sostenitori più vocali di un mercato cashless si annoverino proprio le grandi multinazionali dell’industria e del credito.